SPOSARSI È PASSATO DI MODA

SPOSARSI È PASSATO DI MODA

Il matrimonio è una delle tradizioni più antiche e, in molte culture, è considerato uno dei passi più importanti dell’età adulta. Tuttavia, quello che un tempo era praticamente un requisito per considerare un essere umano funzionale e completo, oggi è solo un’opzione tra le tante. E che ha perso il suo peso culturale.

Sebbene il matrimonio rimanga una fonte di protezione per molte persone (soprattutto donne e migranti), sempre più persone scelgono di non sposarsi. Tra il 2002 e il 2018, la percentuale di single quarantenni è raddoppiata.

Inoltre, sempre più giovani tra i 20 e i 30 anni decidono di non fare il grande passo, o almeno di aspettare. L’idea di essere single o di essere soli è sempre più accettata e considerata naturale. Infatti, il 60% dei single dichiara di amare il fatto di essere single. La domanda è: cosa è cambiato?

 

PERCHÉ LE PERSONE NON VOGLIONO PIÙ SPOSARSI?

Ci sono molte, molte ragioni per cui l’istituzione del matrimonio non è più quella di una volta. Tra questi, la liberazione delle donne, la situazione economica, il cambiamento culturale dei millennial e i livelli di istruzione.

Grazie al maggiore inserimento delle donne nel mercato del lavoro, grazie al quale hanno una maggiore indipendenza economica, molte non prendono più in considerazione il matrimonio per avere una maggiore sicurezza. A questo si aggiunge il fatto che, in generale, i giovani preferiscono anteporre la carriera alle relazioni sentimentali.

PERCHÉ LE PERSONE NON VOGLIONO PIÙ SPOSARSI?

Tuttavia, anche la situazione economica sfavorevole dei millennial contribuisce al fatto che un numero minore di loro preferisce sposarsi. Sebbene questa generazione sia una delle più istruite e preparate, è anche la meno pagata e diversi studi sottolineano che è più povera dei suoi genitori.

In questa prospettiva, è logico che non considerino di avere lo stesso stile di vita delle generazioni precedenti. Poiché il sogno di una casa, di un figlio e di un cane sembra irraggiungibile per molti, è normale che prendano in considerazione altre esperienze xxx gratuit, come viaggiare o creare la propria attività o il proprio marchio personale.

 

SPOSARSI NON È PIÙ L’UNICA ALTERNATIVA

Oltre alle ragioni socio-economiche, anche la cultura del matrimonio è cambiata notevolmente. Sempre meno giovani aderiscono a religioni, quindi non sentono più il peso morale di doversi sposare per vivere in coppia. L’impegno, in questo caso, è preso tra le due parti e non nei confronti di un’istituzione religiosa.

SPOSARSI NON È PIÙ L'UNICA ALTERNATIVA

D’altra parte, non c’è più uno stigma sociale legato all’essere single, soprattutto tra le donne. Uno studio di Tinder ha rilevato che il 72% dei single di età compresa tra i 18 e i 25 anni ha deciso consapevolmente di essere single. Inoltre, questo non li ha fatti sentire male, ma anzi li ha fatti sentire più forti, felici e avventurosi.

Questo, unito al fatto che molti di loro sono cresciuti in case in cui i genitori si sono separati (la statistica più recente negli Stati Uniti dice che la metà dei matrimoni sono divorziati), fa notare un cambiamento nella narrativa intorno all’idea di matrimonio. Perché promettersi per sempre se non esiste?

 

 

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COME CI VEDONO E COME SIAMO REALMENTE

COME CI VEDONO E COME SIAMO REALMENTE
Credit: Erasmusu.com

Ho capito. Quando vediamo qualcosa di sconosciuto, istintivamente vogliamo imparare come funziona. Per questo, l’unica cosa che abbiamo a portata di mano sono i riferimenti. Nella maggior parte dei casi, andiamo al più economico e accessibile: quello che vediamo nei film e in TV.

Per questo, e perché capisco che per gli stranieri la nostra cultura è sorprendente e interessante, a volte rido solo quando sento i pregiudizi che cadono su di noi, gli italiani.

Ora, la prima cosa che dovrebbe essere chiara: gli stereotipi e i personaggi di fantasia non sempre trascendono la realtà… ma c’è sempre del vero là fuori. Oggi vi riassumo alcune di quelle che potete considerare vere, per non scatenare l’ira del vostro amico italiano la prossima volta che lo vedete.

 

COSA È VERO SU DI NOI

NON UGLIAMO TANTO… O NOI?

NON UGLIAMO TANTO... O NOI?

Per favore. Capisco che, in media, tendiamo a parlare un po’ più forte degli altri. È innegabile che il nostro accento sia legato all’aumento di volume, ma ciò non significa che passiamo tutto il giorno a urlare dai tetti. Ciò che è nostro, sì o sì, è la musicalità.

Lo condividiamo con i colombiani, la cui versione dello spagnolo ha una certa musicalità.

 

GESTIAMO MOLTO? GESTIAMO MOLTO

GESTIAMO MOLTO? GESTIAMO MOLTO

Sebbene quella convinzione che urliamo sempre non sia del tutto vera, mi mamma non ha educato i bugiardi. Lo ammetto, usiamo molto le nostre mani, il corpo e, soprattutto, il viso, come risorsa comunicativa quando parliamo.

Ma chi potrebbe biasimarci? La nostra lingua è esclusiva. Quindi, molte volte, quando dobbiamo comunicare fuori dall’Italia, non abbiamo altra scelta che esprimerci usando più delle parole porno. Col tempo, diventa un’abitudine.

 

IL CAFFÈ È TRADIZIONE E LA TRADIZIONE È RISPETTATA

IL CAFFÈ È TRADIZIONE E LA TRADIZIONE È RISPETTATA

Può non essere vero che passiamo tutto il giorno a mangiare pasta, ma se c’è una cosa di cui un italiano HA BISOGNO, è un buon caffè. Un caffè che segue le regole che si forgiano da secoli nella bella Italia.

Non vogliamo sentir parlare di un caffellatte, di una moka, tanto meno di quell’atrocità del caffè freddo che chiamano Frappuccino. E vuoi sapere qual è il peggio? Indignano la nostra lingua per nominarli.

 

PARLIAMO DI TRADIZIONE, PARLIAMO DI CIBO

PARLIAMO DI TRADIZIONE, PARLIAMO DI CIBO

Non rovinare l’occasione che un amico italiano ti inviti a un pasto tipico. Perderai l’opportunità della tua vita di provare tutta la varietà di piatti che esistono nella nostra gastronomia.

No no no! Vi assicuro che non sempre serviremo spaghetti o pizza. Che ci piace? Certo che ci piace, e sono i capisaldi della nostra cucina. Tuttavia, abbiamo molto di più da offrire. E no, non siamo disposti ad aggiungere ananas o pesce a qualsiasi cosa. psicopatici

 

SAPPIAMO COME VESTIRCI, OK?

SAPPIAMO COME VESTIRCI, OK?

Se mi chiedi perché, non saprei darti una risposta. È qualcosa di innato, che forse si spiega con decenni e decenni di sarte, sarte e calzolai in quasi tutte le famiglie italiane. Il punto è che, nella maggior parte dei casi, abbiamo un buon occhio per i vestiti.

Insisto, non chiedermi perché. Goditi il ​​vantaggio. La maggior parte di noi conosce tagli, tessuti e colori. Scegliamo i vestiti con occhio clinico e combiniamo come nessun altro.

Quando vai a fare la spesa, prova a prendere il tuo italiano di fiducia. Il suo buon gusto non ti deluderà.

 

Consiglio: leggi l’articolo con questa musica di sottofondo

 

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Il ruolo delle tecnologie dell’informazione nel campo della salute

Il breve intervento che svolgerò costiutuisce una testimonianza concreta di cosa fanno e possono fare le nuove tecnologie della comunicazione , specialmente interattiva, multimodale e basata su internet, nel campo della salute. Ed è la testimonianza che porto nella duplice e distinta veste di consigliere per la Comunicazione del Ministro della Salute Prof. Girolamo Sirchia, e di Direttore di www.Staibene.it, il primo Portale internet italiano nel campo della salute e del benessere, l’unico in Italia ad essere partner di una istituzione pubblica , il CNR.

Vorrei intanto sfatare 2 luoghi comuni sullo stato della penetrazione delle nuove tecnologie in Italia: il primo, che l’Italia sia un Paese arretrato nella sua mentalità o predisposizione alle tecnologie; il secondo che internet e le tecnologie HI Tech siano una questione da teen agers o da ragazzi e tagli fuori tutti gli altri.

Quanto alla presunta arretratezza dell’Italia qualche dato:
– Gli utenti internet in Italia alla data del 30 settembre 2002 risultavano pari a 19 milioni con un
incremento del 27% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
– L’Italia è il terzo Paese d’Europa per utenti internet dopo il Regno Unito e la Germania e
quest’anno, il 2002, ha compiuto il sorpasso della Francia.
– Per quanto riguarda lo specifico campo della salute, anche qui qualche dato interessante riferito al
primo trimestre 2002.
– gli utenti internet che navigano nei siti dedicati alla salute sono 600 mila, per il 68% hanno tra i 35
ed i 54 anni, quasi la metà ( il 44%) ha tra i 49-54 anni; Si tratta di una maggioranza di donne (
55%) e di cultura superiore ( diplomati).

La principale differenza tra la situazione italiana e quella degli altri paesi europei più avanzati è che il navigatore internet italiano alla ricerca di informazioni e servizi sulla salute è più maturo, più colto, più femminile. Il ritmo di crescita degli utenti internet in Italia è stato nel 2002 del 45% contro una media nazionale del 27%. Ciò significa che la domanda di informazione e servizi degli italiani nel campo della salute mostra una potenzialità di grande rilievo, cresce oltre la media; si stima il raddoppio degli internet user sensibili ai temi della salute entro il 2003, circa 1.200.000.

Il tema del convegno di oggi riguarda le grandi questioni della Educazione, Prevenzione, Assistenza, Comunicazione e ci pone il quesito: cos’è una rete di servizi al cospetto di queste esigenze?
Il tentativo di risposta che dal mio punto di osservazione propongo è il seguente: una rete di servizi che punti all’educazione, alla prevenzione, all’assistenza, alla comunicazione è l’integrazione tra attività sul territorio e attività di comunicazione: integrazione di attività che deve avvenire in modo convergente e coordinato.

Il fine non è tanto costruire una migliore qualità scientifica della cura della salute, fine assolto egregiamente dalla professione medica di cui qui oggi a questo convegno mirabilmente organizzato dal prof. Marigliano abbiamo alcune fra le migliore espressioni e sensibilità, ma il fine è semplificare l’accesso alla salute, alla miglior salute.

Comunicare significa informare; informare significa fare attività di prevenzione; prevenzione 2 cose: 1) evitare guai alla salute 2) eliminare spese evitabili, non per ridurre la spesa sanitaria, ma per destinarla a migliori impieghi. E diversi utilizzatori, per esempio gli anziani. Fornisco alcuni esempi di cosa significa Comunicazione con le nuove tecnologie, rendendo publiche per la prima volta le cifre di due campagne di comunicazione internet, interattiva ed ipertestuale, realizzate da Staibene.it: la campagna a favore della donazione di sangue, realizzata per conto dell’Avis, della Croce Rossa, della Fratres e della Fidas; e la Campagna contro il fumo. E’ stato realizzato il sito www.donareilsangue.it, costituito da una trentina di pagine web ipertestuali con interattività spinta ( medico on line, raccolta iscrizione donatori, motore di ricerca dei centro trasfuizionali ,tecniche di web marketing applicate a fini umanitari). Il risultato: in tre mesi sono stati raggiunti solo dalla campagna on line365 mila utenti che hanno letto 23 mila pagine, si sono iscritti come donatori attivisti in 2000 da ogni parte d’Italia. Il ministro Sirchia, in un comunicati ufficiale ha reso noto che degli italiani raggiunti, 1 su 3 è diventato donatore di sangue.

E’ stato realizzata la campagna Smettere di fumare. Ora si può” che, in 30 giorni, ha ottenuti i seguenti risultati: sono stati contati 137 mila accessi, di 15 mila utenti che hanno letto 12.093 pagine della campagna.

Ma oltre alle campagne di comunicazione on line, ( per le quali ormai in Italia noi di Staibene.it siamo riconosciuti come gli unici che integrano le competenze informative dei nostri giornalisti, con quelle tecniche dei nostri sviluppatori e quelle di web marketing dei nostri e-marketing manager) voglio portarvi l’esperienza dei nostri rapporti con il mondo dei medici e dei farmacisti.

Abbiamo circa 1500 medici registrati e 4200 farmacisti registrati, frutto questi ultimi di una partnership con Farmintesa, primo distributore di proprietà di farmacisti italiano, dei quali 300 circa con un proprio sito aperto all’interno di Staibene.it. Ma abbiamo anche un servizio di consulenza gratuita di Medico on line che fa perno sui 35 medici del nostro Board, costituito da medici di prima grandezza nazionale ed internazionale, fra i quali anche il prof. Marigliano l’organizzatore di questo convegno ed il prof Cacciafesta presente anch’egli in questa sala.

Siamo fieri di questi servizio, non tanto perché forniamo circa 2000 risposte on line, riservate ad altrettante domande di utenti ogni mese, ma perché questo servizio, grazie alla sensibilità dei grandi medici che hanno aderito, è gratuito e si muove lungo il solco della partnership che abbiamo firmato con il CNR per mettere le nuove tecnologie della comunicazione internet al servizio della migliore sanità in Italia.

Queste sono dimostrazioni di come comunicando con qualità nel campo della salute è possibile raggiungere risultati concreti e soprattutto, con internet, inequivocabilmente ed informaticamente misurabili.

Per questo al Presidente Gramazio, che ha annunciato una grande campagna della Regione in favore degli anziani, mi permetto di rivolgere un appello: non dimenticate l’agriturismo faedis. I dati dimostrano che non è uno strumento per ragazzi ,ma fortemente utilizzato ormai da tutti, specialmente gli adulti anche maturi.

La nostra esperienza del Medico on line, ci indica un’età media dei pazienti di 39 anni ma mostra sessantenni e settantenni in grande quantità. La dimensione internet è un dialogo interpersonale assai vicino al colloquio discreto tra medico e paziente , che si svolge senza i rumori di fondi e le interferenze della società.

E’ l’asso nella manica della sanità . Grazie per la vostra attenzione

Bruno Costi

Quando ci si trova al bivio

Energia’ è il titolo di un indimenticabile quadro della pittrice Vanna Spagnolo:un leccio imponente vibra insieme al cielo che promette temporale, di quei temporali estivi che condensano nell’aria energia. Mentre continuo a guardare quella tela magnetica, ascolto Vanna raccontare: siamo nella sua casa, a Volterra, a pochi isolati dall’atelier dove espone. Quella di Vanna Spagnolo è una storia che dovrebbero conoscere tutte le persone che hanno una passione e un sogno, per richiamarla alla memoria nei momenti di scoraggiamento, quando pensano che sia difficile realizzarlo, che sia tardi, che chissà… Soprattutto se ci si sente imbrigliati da un lavoro che procura reddito ma scarse emozioni, quando non si hanno più quei mitici vent’anni in cui tutto sembra possibile. 
Vanna fino a due anni fa viveva a Torino, lavorava alla ricerca iconografica per una casa editrice e nel tempo libero si dedicava alla pittura, suo piacere da sempre. Nei week end spesso andava verso il mare o la campagna per incontrare paesaggi che poi raccontava nei quadri. L’amore per le colline toscane è stato felice, ricambiato e dura ancora. Proprio a Volterra Vanna Spagnolo ha fatto una delle prime mostre. Un successo e altri sono seguiti. Fino alla svolta. ‘Colpa del vento’ recita l’insegna dell’atelier che Vanna ha aperto, proprio davanti al museo etrusco: richiama un suo quadro, l’albero scompigliato dal vento con le foglie che volano via fino a uscire dalla cornice. Alla domande, chi sono i tuoi maestri o maestre, le tue fonti di ispirazione, Vanna Spagnolo risponde sinceramente, senza vezzo: la natura. Alberi, colline, cieli, strisce di spiaggia davanti a un mare d’inverno. Tra gli alberi il più amato è il leccio, per Vanna simbolo della forza e della libertà, di una solitudine intenta, senza malinconia. Davanti alle tele di Vanna si fermano molte persone ogni giorno. Turisti che vengono a visitare la Toscana spesso ritrovano nei colori di Vanna l’incanto di un campo di grano o la luce di un cielo colto da uno sguardo aperto. Molti, moltissimi acquistano i suoi lavori, piccoli quadri, quasi un souvenir, o tele imponenti. Sfoglio il libro dei visitatori, davvero da tutto il mondo. Una ragazza le ha lasciato il suo saluto: Cara Vanna, vorrei vivere in uno dei tuoi quadri!

Se fossimo sedute al 25° piano di un grattacielo di New York sorseggiando il nostro drink preferito e osservassimo il cielo grigio newyorkese come se fosse uno schermo dove viene proiettato il film della nostra vita, scopriremmo che quello che facciamo, esprimiamo e siamo, nel qui ed ora, è il frutto delle decisioni che abbiamo preso in passato.

Quanti bivi e quanti treni mancati! Quante vite parallele non vissute e quanti momenti di smarrimento davanti alle avversità.Quanti tunnel e vicoli ciechi!
Se ripercorressimo con il pensiero quegli istanti decisivi, scopriremmo che anche nei momenti più dolorosi e faticosi, quando il mondo sembrava accanirsi contro di noi, abbiamo avuto sempre una, seppur minima, possibilità di agire o reagire…e abbiamo fatto ciò che, in quel dato istante, ci sembrava fosse la cosa più importante, imprescindibile, più giusta e forse l’unica possibile per noi.

Che si siano seguiti un certo percorso professionale o certi studi, che si sia in coppia con una persona o con un’altra, è frutto delle nostre decisioni. Così come anche il modo con cui abbiamo reagito ad una rottura affettiva, o ad una situazione traumatica e alle avversità della vita, è frutto di ciò che eravamo in grado di esprimere in quel momento.

Prendere decisioni importanti, lo sappiamo tutte, è un’operazione complessa: richiede una serie di valutazioni e la messa in atto di una strategia.

Ci si può confrontare con altre persone, per ottenere opinioni da un altro punto di vista; si può immaginare creativamente una serie di possibili opzioni come risultato della decisione; si possono valutare le conseguenze delle nostre decisioni a corto, medio e lungo termine; si fanno bilanci e consuntivi su ciò che si lascia, e ciò che forse si troverà; ci si confronta con le proprie paure e i propri fantasmi.

Durante un processo decisionale importante si mettono in atto, ognuna secondo la propria esperienza e risorse intellettuali a disposizione, tutte le strategie che si è in grado di concepire.

E a questo punto la domanda sorge spontanea: perché ci sono persone che continuano a mettere in atto strategie decisionali che perpetuano la loro sofferenza?

Credo che ognuno faccia, in quel dato momento, ciò che è in grado di fare al meglio di sé.

Ma perché si decide così spesso di soffrire?

Aldous Huxley disse: ‘L’esperienza non è ciò che ci succede, ma ciò che si fa con quello che ci succede ‘

Il processo decisionale è legato ad uno scrigno segreto che spesso nascondiamo agli altri.
Dentro quello scrigno ci sono i nostri desideri, le nostre credenze, i nostri valori, il nostro senso del sé, il nostro mondo emozionale.
Le nostre decisioni sono il riflesso del nostro scrigno segreto.
Aprirlo e dedicare un po’ di tempo all’ autoesplorazione, permette di portare ad un livello di maggiore consapevolezza le molle motivazionali che guidano le nostre decisioni e scelte.

Che cosa si vuole realizzare veramente?

Cosa si vuole ottenere con quella decisione?

E qual’è il vero obiettivo?
Nel cercare le risposte a queste semplici domande, spesso si cade in trappole verbali che non generano nessun tipo di ampliamento di prospettiva e ci lasciano nella palude dell’indecisione e dell’inquietudine.

Focalizzare la propria attenzione su cosa si vuole veramente non sempre è così spontaneo E’ più facile identificare ciò che non si vuole, ciò da cui si rifugge.
Mettere a fuoco cosa NON si vuole, però, ci ancora al problema.
Provate a chiedere ad una persona cosa desidera.

Scoprirete che molti rispondono verbalizzando cosa NON vogliono:
‘non voglio più farmi trattare male…’ ‘non voglio più lavorare lì..’

Molti studiosi sostengono che l’inconscio non ‘registra’ messaggi in negativo.Sembra voglia solo ‘comandi’ positivi e chiari, circoscritti e sufficientemente esplicativi prima di mettersi in moto e generare i nuovi comportamenti che servono per raggiungere i risultati desiderati.

Se gli obiettivi vengono formulati in modo troppo astratto o troppo generico o ancora troppo indefinito nel tempo, l’inconscio non decodifica, non accende il motore…
E’ necessario fare la lista della spesa, sapere cosa si vuole veramente, quali risorse servono, quali mancano e dove acquisirle, quanto tempo ci vuole e se ne vale la pena.

In altre parole, è necessario un piano, un progetto che preveda una serie di azioni che portino nella direzione desiderata e che faccia scattare le molle motivazionali più profonde.

Se tale operazione sembra macchinosa e non realizzabile, forse è il caso di interrogarsi meglio.

Si è proprio sicure che l’obiettivo che si vuole raggiungere è proprio quello stabilito?
Nel caso di incongruenza, e di conflitto (dichiaro un intento ma mi muovo in modo da ottenere il contrario), bisogna darsi il tempo di sbrogliare la matassa.

Se ci si ritrova in uno stato di disagio profondo e pervasivo bisogna forse anche chiedere aiuto, perché sciogliere i propri nodi esistenziali da sole può essere molto faticoso. Diventarne consapevoli, però, è il primo indispensabile passo.

Le nostre decisioni riflettono anche le nostre credenze, il rapporto che abbiamo con noi stesse e sono strettamente connesse al livello di autostima e all’importanza che attribuiamo alle altre persone presenti e passate della nostra vita.In ultima analisi , riflettono anche il senso della nostra esistenza e la nostra dimensione emozionale

Torniamo al 25 piano del grattacielo di New York e guardiamo il film della nostra vita scorrere sul grigio cielo newyorkese, rivediamo il percorso che abbiamo tracciato, esplorando lo scrigno segreto che lo ha accompagnato, per riconciliarci con le scelte fatte allora, e per raccontarci – mentre sorseggiamo il nostro drink preferito – come possiamo essere le autrici della nostra storia futura.

Io credo che sia possibile. E voi?

Fonte: nacionfarma.com

Perché non si circonda il disagio di rispetto, di amore?

L’esperienza della malattia mentale, a cui assisto come madre, mi ha indotto ad affacciarmi su problematiche che non avrei mai affrontato partendo dalla mia preparazione umanistica. Tuttavia è proprio da questo versante che provengono domande ed ansie a cui non trovo risposte.

La schizofrenia è una malattia? L’interpretazione ora prevalente sulla sua origine, identificata in fattori biogenetici, indurrebbe a pensare che la sua incidenza e gravità la circondassero di una partecipazione sensibile e attenta, diffusa nella comunità da una produzione culturale che non lasciasse dubbi sulle anomalie del comportamento e sul grado di sofferenza che vi sono connessi. Anomalie viste come una stranezza risibile, talora anche colpevole o comunque terribile, da respingere nella marginalità della convivenza. Sofferenza di un andare diversificandosi dall’intendere comune, acutizzata da questa stessa marginalità.

Ma se di malattia si tratta, se ad un’origine biogenetica la si riconduce, perché non vi si adibisce un grande impegno di ricerca applicata, una pubblica mobilitazione di mezzi, come per i tumori e la scerosi? Potranno mai medici e operatori porsi di fronte a questi malati in modo scientifico e non distaccato e difensivo? Perché non si circonda il disagio di rispetto, di amore? E come non provare questi sentimenti davanti a un uomo colpito in quanto c’è di più umano: la coscienza?

Ma è proprio sotto questo aspetto che vorrei esprimere qualche dubbio su diagnosi e terapia (chimica) a cui la psichiatria attuale è prevalentemente attestata. Se infatti situazioni di stress di minore o maggiore grado possono creare scompensi anche a ciscuno di noi (che però ne siamo forse sorpresi in momenti in cui siamo attrezzati a superarli), come non comprendere che possano provocare lesioni sensibili in una tessitura interiore più fragile e impreparata? Non a caso simili condizioni patogene cadono in coincidenza con il passaggio adolescenziale dei 17 – 18 anni, che è un tipico tempo di crisi. Anche in corso di malattia, un’alterazione del trend terapeutico rivelatosi utile, o di rapporti positivi, o l’insorgere di relazioni negative, o un qualsiasi ulteriore incidente, possono determinare un peggioramento a volte irreversibile. Viceversa, un contesto distensivo, aperto e fertile, può alla lunga evocare, in tutto o in parte, quel senso di sé che il malato era andato smarrendo.

E’ questa un’esperienza di cui sono testimone. Un fattore psicologico non è comunque estraneo ai mutamenti della psiche, integra o lesa che sia. Di questo gli altri, le persone comuni o deputate alla conoscenza e alla cura del disagio, dovrebbero tenere conto.

Un mio figlio vive ora in una comunità terapeutica, umana, preparata ed efficace, di cui mostra evidenti benefici.

Sono preoccupata che questa sua condizione possa essergli alienata dai progetti di riforma programmati sulla salute mentale.

Salute mentale, cancellare o migliorare?

Nelle relazioni che mi hanno preceduto abbiamo visto come si articola l’intervento psichiatrico oggi, ad oltre 20 anni dalla legge Basaglia, nei vari momenti in cui diventa necessaria la cura: crisi acuta, eventuale ricovero, dimissione, intervento sulla cosiddetta cronicità, ecc.

Siamo tutti perfettamente consapevoli che questo intervento presenta luci ed ombre, che non ovunque sul territorio sono presenti le risorse adeguate, che molto è ancora il disagio che pesa sui malati e sulle loro famiglie. Siamo anche però convinti che la maggior parte dei limiti dell’assistenza psichiatrica sia dovuta alle carenze dell’applicazione della legge più che a difetti intrinseci della legge stessa. Sono carenze di tipo economico, organizzativo, di chiarezza delle normative e delle procedure per l’applicazione. A molti di questi limiti si è tentato di mettere riparo con i progetti-obiettivo del ’94 e del ’99, anche se va sottolineato che l’ultimo di questi è scaduto alla fine del 2000 e attualmente è in vigore solo “in prorogatio”.

Detto questo, però, vanno spese alcune parole nel merito delle proposte di legge per la presunta “riforma” della legge Basaglia.

Per ragioni di tempo, e anche per il peso della forza politica che la sostiene, mi soffermerò principalmente su quella presentata dalla senatrice Burani Procaccini di Forza Italia.

Si tratta di una proposta che non solo riporta indietro la qualità dell’assistenza psichiatrica italiana, ma rischia addirittura di disegnare un quadro perfino peggiore di quello esistente prima della vera riforma del ’78.

Le enormità, le incongruenze, i veri propri attentati ai diritti dei cittadini sono talmente tanti che non possono essere affrontati nei pochi minuti concessimi in questa sede. Mi soffermerò quindi solo su alcuni cercando, in conclusione, di prefigurare la rischiosa situazione che si verrebbe a creare nella malaugurata ipotesi di una sua approvazione.

1. Già nella pagina di presentazione si afferma che si dovrà andare alla “creazione di un numero adeguato di strutture residenziali comunitarie che costituiscono il fulcro dell’assistenza terapeutica”. Con ciò si stravolge completamente la legge vigente impostata sulle strutture ambulatoriali nel territorio.

2. Ritorna il famigerato concetto, centrale nella vecchia legislazione manicomiale del 1904, della pericolosità del malato di mente che viene decisa dal medico e che rappresenterebbe uno dei motivi di inserimento coatto in una struttura protetta. Questo concetto riproduce la confusione e la commistione di due sfere di intervento (quella della sicurezza pubblica e quella sanitaria) che devono rimanere separate e essere affrontate da diverse istituzioni.

3. Vengono “facilitati” i Trattamenti Sanitari Obbligatori che vengono divisi in due diverse tipologie: il TSO urgente e il TSO non-urgente. Il TSO urgente ha la durata di tre giorni eviene attuato in un Osp. generate. Può essere richiesto da chiunque ne abbia interesse e deve essere convalidato da uno psichiatra. In nessun punto del progetto di legge si specifica che debba essere uno psichiatra del servizio pubblico! Il TSO urgente (teoricamente della durata di tre giorni) può essere protratto incaso di necessità di esami o “nell’attesa di trovare strutture alternative e comunque non è rinnovabile allo scadere dei due mesi”. Salta immediatamente agli occhi la terribile sproporzione tra il limite teorico della durata (tre giorni), che come vedremo è la giustificazione all’assenza di ogni garanzia, e la possibilità di proroga (fino a due mesi). Inoltre si vengono a ricostruire nell’ospedale generale le vecchie “astanterie” psichiatriche (qui a Bologna tutti ricordiamo il vecchio CDN). Il TSO urgente “Può essere effettuato anche in caso di patologie fisiche che il malato rifiuta di curare”, in barba a qualsiasi diritto a scegliersi la cura e alla libertà in termini di scelte di vita, religiose, ecc. A quando, vien da chiedersi, la terapia Di Bella fatta per TSO?

4. Il TSO non urgente, invece può essere richiesto dai famigliari, da operatori sociali che abbiano in cura il malato, da uno psichiatra o dal CSM, deve essere confermato da due psichiatri di cui uno

dipendente della struttura pubblica, ha durata di due mesi (contro gli attuali sette giorni) ed è rinnovabile. Non viene specificato in nessuna parte un limite ai rinnovi. Esso consiste, di fatto, nell’obbligo di sottoporsi a cure ed esami presso il domicilio, gli ambulatori, le strutture residenziali o gli ospedali dotati di reparti di psichiatria. Ed ecco ripristinato il trattamento obbligatorio illimitato!

5. Si istituisce una “Commissione per i diritti del malato di mente” che nei fatti sostituisce il Giudice tutelare, che pure ne farà parte, assieme però a uno psichiatra e a un rappresentante delle associazioni delle famiglie. In tal modo si sancisce che i diritti del malato di mente vengono tutelati da un’agenzia diversa da quelle istituzionali valide per tutti gli altri cittadini. A tale commissione devono essere notificati con la massima sollecitudine i provvedimenti di TSO non urgenti. Viene invece espressamente escluso tale obbligo in caso di TSO di urgenza. A parte l’amenità di richiedere la massima sollecitudine in un provvedimentonon urgente e di non richiedere nulla per quello urgente, rimane il fatto gravissimo che un cittadino può essere rinchiuso su proposta di chiunque, con la confema di uno psichiatra privato, teoricamente per tre giorni che però possono essere protratti fino a due mesi senza che questa operazione venga automaticamente comunicata a qualsivoglia autorità giudiziaria!!!

6. I TSO urgenti vengono garantiti da interventi a domicilio 24 ore su 24, come neanche i migliori “numeri verdi” riescono a fare, grazie all’istituzione di un servizio di emergenza Psichiatrica territoriale che, ovviamente potrà essere pubblico o privato: una “volante psichiatrica” pronta a intervenire su chiamata (di chi?) per interventi in situazioni che non conosce, e spesso all’interno di progetti terapeutici di cui non ha mai sentito parlare.

7. I TSO non urgenti in regime di ricovero andranno effettuati delle erigende “strutture residenziali con assistenza continuata (SRA)”che dovranno garantire, tra pubblico e privato, almeno 80 posti letto ogni 100 mila abitanti per un totale di almeno 45 mila posti letto sul territorio nazionale (contro un tetto di 11 mila p.l. previsto dal progetto-obiettivo attuale). Ciascuna SRA non potrà avere più di 50 (diconsi: cinquanta!) p.l. (a fronte degli attuali tetti di 20 p.l. negli SPDC), ma più SRA potranno “essere raggruppate in un’unica zona o gruppo edifici” in ragione di una maggiore efficienza. Poiché in altro punto del progetto di legge si afferma che “le aree e gli edifici degli ex ospedali psichiatrici sono utilizzati per la realizzazione di strutture a favore dei malati di mente” è chiaro cosa avesse in mente il redattore: reparti da 50 posti letto in mastodontici manicomi! Come ogni manicomio che si rispetti anche quelli immaginati in questo scellerato progetto avranno una commistione di patologia e di fasce di età: è, infatti, previsto di ricoverare pazienti dai 14 anni in su, fino, ed è scrittoespressamente, agli anziani non autosufficienti. emergenza Psichiatrica terri-toriale che, ovviamente potrà essere pubblico o privato: una “volante psichiatrica” pronta a intervenire su chiamata (di chi?) per interventi in situazioni che non conosce, e spesso all’interno di progetti terapeutici di cui non ha mai sentito parlare.

8. “I servizi del DSM possono essere a gestione pubblica o privata. Devono essere a diretta gestione pubblica i CSM, salvo per quanto riguarda le emergenze ed i day-hospital”. Qui il redattore del progetto dimostra di conoscere molto bene la realtà dei nostri ambulatori: la loro attività sarebbe troppo poco remunerativa per il privato!

9. Di grande interesse, per il nostro ragionamento conclusivo, sono i punti che in qualche modo definiscono il rapporto del paziente psichiatrico e il lavoro. Questa sciagurata proposta afferma “I

malati di mente devono essere inseriti nelle liste di collocamento obbligatorio per portatori di handicap” Prima questione: quali malati di mente? Tutti? Indipendentemente dal grado effettivo della loro invalidità lavorativa? Seconda questione: “devono” senza fare apposita domanda? Senza sottoporsi ad una visita della commissione per le invalidità? Terza questione: “devono” anche se non vogliono?

10. Il progetto di legge prosegue: “il malato di mente deve ricevere dalla sua attività un emolumento corrispondente al valore economico del lavoro effettivamente svolto. Da tale emolumento possono essere detratte le spese per gli operatori adibiti alla cura del malato e per le strutture protette (cioè il paziente col suo lavoro si paga gli interventi di cura e le strutture)… Al malato deve comunque essere lasciato non meno di un quarto degli emolumenti di sua competenza”. Avrei una domandina semplice semplice da porre a questa finissima mente giuridica: quanti pazienti andrebbero a lavorare per un quarto del valore economico del lavoro effettivamente svolto?! Naturalmente, poiché le parole hanno un senso, specie in un testo di legge, dire “devono” non è una svista, ma il senso profondo di questa legge: i malati di mente non hanno gli stessi diritti degli altri cittadini, che infatti non possono essere costretti a iscriversi a nessuna lista di collocamento (almeno per il momento), nè a pagarsi attraverso prestazioni lavorative dirette il costo delle cure (almeno per il momento!). Questi “onorevoli” signori disegnano una situazione in cui il paziente psichiatrico è una sorta di squattrinato avventore di un ristorante che per pagare il conto è costretto a lavare i piatti. Detto in altri termini li considerano non dei cittadini ammalati e con diritto di essere curati, ma come dei mangia pane a tradimento – che è finalmente ora di mettere in riga a ripagare un po’ di quello che consumano!

11. Come abbiamo già detto, le strutture dei DSM possono anche essere private, ma, attenzione!, si afferma che “Nella utilizzazione di strutture private è data la precedenza alle strutture di carattere cooperative o che utilizzano il lavoro, anche parziale, dei malati di mente”: si realizza qui il capolavoro della perversione: il paziente psichiatrico viene costretto a curarsi, costretto a lavorare, costretto a pagare con il proprio lavoro le proprie cure e costretto a far funzionare, sempre col proprio lavoro, quelle strutture nelle quali l’hanno costretto a stare!! Questo passaggio disvela an che la logica della cosiddetta struttura residenziale comunitaria e lo scarso respiro che in tutto questo disegno vien dato al progetto terapeutico-riabilitativo: si ricostruisce un mondo chiuso, funzionante tendenzialmente con le proprie risorse, senza sbocchi all’esterno e che cerca solo al proprio interno le risposte alle esigenze del malato. E’ evidente come tutto ciò nasca dal bisogno di isolare il malato, di toglierlo dal circuito lavorativo “normale”, di nasconderlo agli occhi del mondo.

Molto altro ci sarebbe da dire su questa legge (e sull’omologo progetto presentato dall’on. Cè della Lega Nord) Ad esempio a proposito della reintroduzione della dimissione “in affido” che riproporrebbe un’antica mostruosità giuridica: la responsabilità di una persona verso (e su) un’altrapersona (una sorta di tutela) in assenza di qualsiasi procedimento giuridico.

O, ancora, sul fatto che viene “regalato” all’Università il governo della psichiatria nelle grandi città. O, infine, la stramba idea, espressa nella proposta Cè, di proibire di utilizzare immagini di malati mentali per forme commerciali o pubblicitarie. Verrebbe da chiedersi: perché no, se il pa-ziente dà il proprio consapevole assenso e viene, magari, adeguatamente compensato? E’ chiaro, come in tutti i passaggi di questi due progetti di legge, che il malato mentale viene considerato una “non-persona” non in grado di decidere autonomamente, di convivere con gli altri, di prestare una mansione lavorativa, ecc.

In conclusione, vorrei sottolineare la pericolosità dal punto di vista clinico della situazione che si verrebbe a creare nel caso dell’approvazione di leggi come queste.

Lo snodo, il punto centrale che stravolge decenni di pratica, di teoria e di ricerca nel campo psichiatrico, riguarda il problema della cosiddetta cronicità. Nelle condizioni attuali i tempi ristretti previsti per i ricoveri, i numeri ridotti di posti-letto e tutto il dispositivo della legge-Basaglia ci costringe (operatori e istituzioni), pur con mille fatiche, a ragionare in termini di proiezione verso il mondo esterno al circuito psichiatrico: la fmalità è il reinserimento del paziente nel tessuto sociale, lavorativo e familiare.

La filosofia di queste proposte di legge è viceversa quella di ricostruire un mondo separato e custodialistico.

Particolare attenzione andrà posta alle forme di finanziamento delle strutture in quanto, specie in

presenza di un eventuale privato forte, l’interesse delle strutture ad avere un alto numero di video porno di pazienti ricoverati colluderà inevitabilmente con le spinte emarginanti della società, con le necessità di contenimento del disagio, con le tendenze espulsive delle famiglie e, infine, con le parti regressive del paziente stesso. La legge-Basaglia si fonda non su generiche aspirazioni libertarie, ma su precise valutazioni cliniche, dimostrate da centinaia di studi e confermate da due decenni di pratica: l’enfatizzazione degli aspetti custodialistici, lungi dall’essere terapeutico, porta alla cronicità e al deterioramento del paziente.

Se dovessero passare queste leggi la situazione potrebbe essere perfino peggiore a quella pre-180: i CSM rischiano di diventare una sorta di agenzia “accalappia-matti”, strutture sguinzagliate sul territorio per stanare il disagio psichico nascosto non già per portarvi una risposta terapeutica, ma per coinvogliarlo dentro strutture chiuse e separate nelle quali non è previsto nessun circuito di uscita. Gli “almeno” 45.000 posti letto previsti, non saranno di certo sufficienti.

Quali leggi per la psichiatria?

“L’emanazione della ‘180’ – 13 maggio1978 – fu il coronamento di un lungo e travagliato processo di trasformazione istituzionale che certo non rappresentò solo un riassetto ‘interno’ alla psichiatria. Esso fu un aspetto non secondario della ‘modernizzazione difficile’ del nostro Paese: contribuì a rimettere in discussione ideologie e modelli antropologici socialmente diffusi, e infine ad avviare, almeno, un confronto con l’etica della tolleranza o dell’accettazione del ‘diverso'”. Così scriveva lo psichiatra Ferruccio Giacanelli, nel ventennale di quella legge, sull’inserto della Domenica de “Il sole-24 ore”, in un articolo intitolato: “Per legge il malato divenne persona”. Egli notava inoltre come tale legge, cui si giunse in seguito a profonde critiche al precedente sistema manicomiale, fatte non solo da specialisti, ma anche da giornalisti, politici, sindacalisti, alcuni amministratori illuminati, intellettuali, studenti, fu però partorita in modo affrettato, in seguito ad un referendum in merito indetto dai radicali, per “il timore che si aprisse un periodo di vuoto normativo” in proposito. Comunque, proseguiva Giacanelli, il fatto che tale legge fosse “per di più priva di disposizioni applicative e di qualsiasi previsione di finanziamento”, non la condannava all’insuccesso.
Nel 1978, quando in Italia vi erano 100 manicomi con 110.000 degenti, e quando non erano ancora conosciuti (e diffusi) i nuovi neurolettici, certo si fece una scelta ideologicamente giusta, ma di grande coraggio, che pose il nostro paese in una situazione di avanguardia rispetto al resto del mondo. Oggi, dopo che dalla metà degli anni ’90 la diffusione di nuovi farmaci specifici ha riportato a comportamenti normali grande parte dei malati affetti dalle patologie più gravi, come la schizofrenia, e dopo che in un paese come l’Inghilterra, che ha seguito l’Italia nella chiusura dei manicomi, si è constatato come l’efficienza organizzativa di équipes di operatori che agiscono sul territorio possa molto agevolmente permettere ai malati psichici di vivere presso le loro famiglie, o da soli, nel nostro paese anziché portare avanti, perfezionare, l’indirizzo che si era scelto, si propongono in parlamento leggi (1) che finiscono per negare tutto quello che si è fatto in questo settore: e soprattutto finiscono per negare il diritto al reinserimento, al recupero di queste persone, proprio oggi che la scienza, la medicina, renderebbe tutto questo molto più facile.
Sono mancati validi progetti per il reinserimento, per la riabilitazione, la sensibilizzazione della gente; sono mancate le idee, la creatività, l’entusiasmo e la fede individuale di tanti, operatori e famigliari. Spesso questi ultimi si sono visti addossare pesi insostenibili, da operatori che superavano le proprie difficoltà trincerandosi dietro ad aspetti burocratici.
Oggi si può sperare di essere ancora in grado di recuperare il tempo perduto, spolverando ideologie appannate, per evitare che nuove leggi, che sembrano non riconoscere ai malati psichici il diritto di essere persone, riportino indietro la nostra cultura e la nostra civiltà.
Pubblichiamo in proposito: un documento approvato all’unanimità dal Comitato esecutivo della Società Italiana di Psichiatria l’11 ottobre 2001; una lettera a Presidente della Repubblica dell U.N.A.SA.M (unione nazionale delle associazioni per la salute mentale) del 15 ottobre 2001; un intervento dello psichiatra Stefano Catellani fatto il 26 novembre 2001 ad una giornata seminariale sull’argomento organizzata dalla CGIL di Bologna; una lettera di un famigliare.